Grazie alla straordinaria invenzione di cui menano vanto le compagnie di trasporto ferroviario, vale a dire una particolare forma di aerazione che eliminerebbe i pericoli del contagio da COVID, i treni sono a oggi uno dei pochi luoghi nei quali ci si trova a vivere una socialità old style e precovidica. Certo, non mancano le mascherine obbligatorie e il controllo del green pass, ma per il resto ci si accomoda, come in passato, accanto a dei perfetti estranei e per ore si condividono pochi metri quadrati con una comunità estremamente eterogenea. Si ritorna a sfiorarsi casualmente mentre si sta seduti, a passarsi gli uni davanti agli altri, in un allegro assembramento alla vecchia maniera.
Per questo, viaggiare in treno oggi è quasi come entrare in una specie di macchina del tempo, che permette di riassaporare antiche logiche di aggregazione.
Può capitare, per esempio, che su un treno in ampio ritardo si apra un dibattito tra gli astanti come ai bei tempi; una qualche timidezza trapela: nessuno è più abituato a interloquire con persone esterne al proprio circuito protetto degli affini e c’è evidentemente qualche ruggine nei meccanismi una volta ben oliati. Così, quasi sommessamente, si comincia con il discutere del perché si sta fermi e si formulano pacatamente ipotesi sull’eventualità di un guasto o di uno sciopero. Tutti sanno che nessuna di quelle considerazioni ha fondamento ma proprio questa svagata consapevolezza permette di gustare il sapore primitivo di quel chiacchiericcio prodotto senza alcun altro scopo che non sia il chiacchiericcio stesso. Tolto un po’ di imbarazzo alle ugole rattrappite, riemergono i grandi classici del dibattito nazionale, quelli trasversali e universali, capaci di discettare dell’atavico problema dei disservizi pubblici anche quando si è seduti su un treno di una compagnia privata.
La comunità conversazionale così spontaneamente formatasi e, soprattutto, nostalgicamente riappropriatasi dei suoi dispositivi di qualunquismo in servizio effettivo permanente rischia però di finire velocemente la sua corsa; il treno riparte, le discussioni spariscono.
Poi, ecco il genio che entra nella storia dell’umanità e le dà prospettiva e orizzonti.
Capita che l’accompagnatore di un passeggero, alla ripartenza, resti bloccato sul treno. Urla, disperazione, confusione. La comunità vibra. C’è eccitazione. Tutti colgono che si sta per imbandire un banchetto con portate succulente. Il climax ascendente esplode quando, dopo aver richiesto dal vagone la fermata straordinaria del treno, il passeggero suo malgrado decide di adottare un approccio passivo-aggressivo con uno degli stuart. Il treno si ferma nella prima stazione (non prevista dal viaggio). Arriva la Polizia.
Il banchetto è pronto.
Ci sono fazioni, avvocati difensori di parte lesa, tribuni infervorati: c’è chi valuta i costi, in termini economici e spirituali, per il malcapitato; chi imputa a una particolare indole di noi sudisti l’esito teatrale della vicenda; c’è chi, in modo invero un po’ tranchant, propone pene esemplari, da consumarsi in loco. E c’è chi continua a fissare il monitor del PC per evitare che, incrociando gli sguardi dei dibattenti, sia costretto in qualche modo a partecipare all’ordalia.
E’ difficile capire perché gli esseri umani, quando si trovano insieme, mal sopportino la condizione alla quale la natura li ha saggiamente votati, cioè il silenzio. Rompere questo v(u)oto con una parola qualunque, gettata lì a commento di un avvenimento del quale non si sa niente o con riflessioni che non hanno nessuna utilità è una scelta violentante, che troppo spesso riempie non solo le carrozze dei treni ma anche le serate tra amici un po’ stanche nelle quali c’è poca voglia di mettersi in gioco e si palleggia facile da fondocampo. Alla fine, è l’effetto di un horror vacui mediocre perché, alla paura di non avere cose veramente interessanti alle quali pensare, si risponde fiondandosi sulla prima preda commentabile, in modo a volte infelice, a volte ridicolo, a volte sciacallesco.
Ritornare in un social reale, dopo mesi di onlife, è molto istruttivo e per certi versi consolatorio; permette di liberarsi dalla falsa opinione secondo la quale il problema del commentismo tribale è una malattia sorta e diffusasi a causa dei social network e di realizzare invece che è solo la declinazione digital del ramo storto che annoda il nostro animo e del quale non potremo mai liberarci.
Provate a riprendere un treno, in queste settimane. Forse ci metterete un po’ ad arrivare a destinazione ma come riepilogo in purezza del nostro talento a vivere tutti assieme sopportandoci (cordialmente e a stento) è l’esperienza perfetta.