Per vari motivi io e mia figlia abbiamo trascorso in auto molto tempo sin da quando lei era piccola. Nei tragitti lunghi anche più di un’ora ho biecamente sfruttato tutti gli strumenti messi a disposizione dalla moderna tecnologia dello streaming video per intrattenerla. In particolare, per motivi che mi sono tuttora sconosciuti, mia figlia si era appassionata a una serie tv anni ’80, Hazzard, che raccontava le vicende un po’ improbabili di due fratelli e una sorella che scorazzavano per una contea della Georgia sulla loro auto, il Generale Lee, irridendo le forze dell’ordine locali che, dal canto loro, cercavano in tutti i modi di accusarli di qualsiasi crimine commesso nella regione, mentre intanto si arricchivano con loschi traffici. Per almeno un paio d’anni, gli episodi delle sette stagioni di Hazzard hanno stabilmente occupato il mio tablet e il tempo trascorso in auto e ancora oggi, se ci penso, quella abitudine mi restituisce una strana sensazione di comfort e tranquillità.
A pensarci ancora meglio, però, una riflessione si impone. La serie tv era quanto di più ‘lineare’ si potesse trovare all’epoca. I tre personaggi ‘buoni’ erano belli, aitanti e alla fine vincevano sempre, umiliando i cattivi, che ovviamente erano brutti, sovrappeso, mediamente stupidi e destinati senza speranza a soccombere. Lo svolgimento degli episodi era ‘piano’ e costantemente identico a se stesso: antefatto, equivoco, scioglimento, finale. Il messaggio veicolato era anch’esso abbastanza ordinario: il bene vince, il male perde, i valori della fratellanza sconfiggono quelli della vil pecunia, e così via. Un prodotto dunque mediocre nel senso di medio, non paragonabile, per intenderci, a serie ‘letterarie’ come quelle alle quali siamo abituati oggi. Una country soap insomma, leggera al punto giusto, perfetta per far scorrere via un’ora d’auto. La riflessione che (mi) si impone, dicevo, è relativa proprio alla fruizione che mia figlia aveva di questo contenuto che, come detto, non era proprio da Emmy Awards. Quello che io cercavo e ottenevo da quella struttura così ordinaria e lineare della serie era che lei tenesse gli occhi fissi sul tablet per un’ora, così da non avvertire il peso del viaggio e del sacrificio e anzi, quasi quasi, si augurasse di viaggiare ancora per vedere un’altra puntata.
Anche oggi viaggio non di rado con mia figlia, che ha adesso 13 anni. Anche oggi lei passa il tempo in auto a fissare uno schermo per ingannare il tempo e farsi anche un po’ piacere quel viaggio lungo. Anche oggi i contenuti che guarda non sono da premio Pulitzer. A differenza di quando era piccola, però, io mi irrigidisco, penso tutto il male possibile dei reel che guarda a ciclo continuo per mezz’ora, emetto giudizi lapidari sulla stupidità di chi li produce (e dunque implicitamente di chi li guarda), pontifico sulla degenerazione culturale di un’epoca nella quale pur di farsi vedere si metterebbe online anche la propria morte, stigmatizzo con violenza la pratica di mettere cuoricini o quant’altro a contenuti di persone delle quali si ignora anche il nome e che si guardano distrattamente per meno di 7 secondi prima di swipparli via.
Perché? Perché Hazzard sì e Tik Tok no? Perché il qualunquismo georgiano dei buoni vs cattivi sì e i video dei balletti no? Perché l’insieme di tutti gli stereotipi sui good-old-men dei genuini Stati dell’America rurale sì e la videonarrazione della propria vita sentimentale no? Non sono entrambi contenuti creati per il solo intrattenimento, fatti per far passare alle persone un po’ di tempo in spensieratezza a pensare che Bo e Luke alla fine certamente scopriranno e faranno arrestare i responsabili di quella rapina nella banca o che è importante partecipare a quel sondaggio sul colore del mio prossimo make up?
Il problema, ovviamente, è culturale e cognitivo. La serie tv anni ’80, con tutti i suoi triti luoghi comuni, è il meraviglioso insieme di banalità e ovvietà che mi ha allevato. Magnum PI, A-Teams, Hazzard e tanti altri sono stati compagni della mia infanzia e adolescenza. Non avevano nessun intento pedagogico, non dovevano insegnarmi valori o concetti profondi. Non dovevo impegnare una percentuale consistente delle mie competenze per capirli. E forse per questo erano così meravigliosi. Perché erano easy, ci si poteva sedere sopra senza pensarci. Erano intrattenimento: una cosa, appunto, che occupa un po’ del tuo tempo senza richiederti particolari sforzi. I reel e tutti gli altri contenuti che oggi producono intrattenimento non sono né peggiori né migliori di quelli; sono solo figli di una modalità di comunicare, di esporsi, di raccontarsi che non è la mia e che, dunque, sento come estranea. Nel ribellarmi al fatto che mia figlia li guardi sto, in fondo, soltanto rivendicando il diritto a essere più vecchio di lei, a rappresentare un universo espressivo e culturale oggi senescente, cresciuto con standard qualitativi non così più alti di quelli attuali ma certamente diversi.
A tutti i ragazzi che, beati loro, oggi godono di una vastissima offerta di contenuti, che guardano le migliori serie tv disponibili in streaming, che ascoltano tonnellate di musica e sfruttano l’amplissimo patrimonio editoriale a loro disposizione, va confessato che il nostro giudizio sferzante su quella forma di intrattenimento un po’ compulsiva non è pedagogia. Bisogna ammettere con loro che il nostro problema non è etico ma anagrafico.
E’ solo il sentimento della fine di un mondo.
E’ solo nostalgia.