Sono passati più di trent’anni da quando io e Dio abbiamo litigato.
Era l’inverno del 1990. Avevo sedici anni, molti amici, tre chitarre, tantissimi videogiochi e un tumore. Un linfoma, per la precisione. Era arrivato pochi mesi prima, in una giornata calda di fine primavera alla quale era seguita una estate intera trascorsa in casa, a soffrire. Poi, la diagnosi. L’operazione. L’inizio della chemio. Per tre anni.
Ho sempre avuto delle vene fragilissime. All’inizio di ogni ciclo di terapia non c’era infermiere, in quegli anni, che riuscisse a prenderle al primo colpo. Si tentava un braccio, poi un altro; la mano sinistra, poi la destra, in un rosario lunghissimo di buchi a vuoto. Quella mattina il prelievo era stato più complicato del solito. Ero inchiodato al letto dalla stanchezza, con le braccia aperte, doloranti.
Non eravamo due estranei all’epoca, io e Dio. Diciamo che la nostra non era una amicizia profonda quanto piuttosto una frequentazione moderatamente costante. Andavo in chiesa la domenica con la non spiacevole inerzia di un adolescente figlio di cattolicissimi. Nonostante fossi un credente tiepido, però, in quel letto, in quella condizione che quasi ci rendeva specularmente uguali, crocifissi entrambi alle nostre sofferenze, mi sentivo nel pieno diritto di parlargli a tu per tu. E di chiedere, semplicemente, perché. Perché stavo perdendo la mia adolescenza così. Perché dovevo abbandonare il mio banco a scuola ogni dieci giorni per le chemio. Perché la nausea, i dolori alle ossa. La perenne debolezza. La tortura mattutina dei prelievi. I prelievi trapananti del midollo. Perché per strada dovevo evitare le vetrine e gli specchi in casa per non rivedermi gonfio di cortisone e senza capelli. Perché non potevo innamorarmi, correre in motorino, giocare (male) a pallone.
Che cosa avevo fatto di male per meritarmi quella punizione?
Da quel momento, da quelle domande, ho smesso di frequentare le chiese. E ho cominciato a credere veramente.
Perché, da quel momento, ho realizzato che la domanda sul perché era inutile. Che vivere non è pensare il vivere, non è chiedersi da dove viene e dove va la vita, né tentare di capire quando e come il corso degli eventi possa mutare, a nostro favore o meno. Ho cominciato a gustare con voracità l’esistenza, tutta l’esistenza, anche le parti più amare e appuntite, a divorarle con la bulimia di chi sa che il gioco può finire tra un minuto e, dunque, che ogni minuto disperso in attività tossiche è sprecato. A questa fede ho indirizzato tutta la mia vita, non sempre riuscendo a dar valore vero a tutti i suoi attimi ma almeno provando a vivere ogni momento con la giusta intensità. Con un senso di grata meraviglia per le possibilità piccole e grandi, dolorose e dolci, amare e straordinarie che ogni ora mi offre. A questa divinità dell’esistere mi sono votato, vivendo le mille passioni della mia vita come liturgie da osservare ogni giorno e indossando quanto più possibile la gentilezza e l’allegria come paramenti sacri sull’altare di ogni mia esperienza.
In queste ore in cui mi ritrovo di nuovo a guardare quelle paure buie, riflesse in occhi dolci ed enormi dove mai avrei voluto ritrovarle, forse mi consolerebbe credere in un Dio da pregare. Uno di quelli ai quali si chiede udienza con un lumino, un’offerta o un inchino. Un Dio al quale domandare sollievo. Ma mi sentirei, in quel caso sì, di tradire ciò in cui da tempo credo profondamente. Perché un istante dopo averlo pregato e aver così accettato l’idea che lui è l’essere che tutto può, gli dovrei chiedere di nuovo, come trent’anni fa, perché. Perché, se tutto può, ha permesso che accadesse tutto questo. E perché, se tutto può, non lo ferma.
So che la medicina farà ciò che deve. Per parte mia, continuerò a rispettare il sacerdozio che da quei giorni di più di trent’anni fa mi lega al valore e al culto dell’esistenza, qualsiasi forma essa prenda, e proverò giorno per giorno a spiegare a quegli occhi dolci ed enormi che ogni battito di palpebre con il quale, secondo dopo secondo, ci riaffacciamo continuamente a guardare il mondo è il nostro sacro miracolo quotidiano.
Con la fretta gioiosa di chi non vuole aspettare né sprecare un solo minuto.
‘Tu sei più bella di ieri vita che a tutti ci fai battere il cuore. Ed è proprio questo che mi piace tanto. Ma non so scrivere e non so dire. Non so chinare la testa, che non si china la testa. E non si regala l’intelligenza e la compagnia. E non è il caso d’aspettare. Non è il caso d’aspettare. Mai più’