E pluribus unum

La terza stagione di Stranger things è l’esempio perfetto di prodotto creato per indurre dipendenza: appena finita la sigla – già di per sé sufficientemente iconica – pronti via e l’universo delle prime due stagioni è tutto lì, con qualche anno in più sulle spalle dei protagonisti, visini meno ragazzini e più ormoni in circolo, ma senza grandissime novità.

Ci si riaccomoda in pochi minuti sulla poltrona che s’affaccia sull’orizzonte piatto della fittizia Hawkins, Indiana, con lo stesso atteggiamento di quando si ritornava dalle vacanze portando con sé qualche cartolina da far vedere agli amici (niente selfie, siamo negli anni ’80) e con la voglia di ritrovare le facce di sempre. I Duffer Brothers costruiscono puntate che viaggiano percorrendo citazioni di generi cinematografici diversi, con momenti Blob, centri commerciali romeriani e docce Psychiche, ma quello che domina sempre, in ogni puntata, è la perfetta alchimia tra un ritmo narrativo mai stanco e una eccezionale caratterizzazione dei personaggi, che alla fine fanno sempre quello che ti aspettavi avrebbero fatto perché, per due stagioni, la sceneggiatura li ha fatti crescere davanti agli occhi del pubblico, e sono diventati dei tipi noti.

 

Una linea sotterranea e affascinante cuce tutti i pezzi di questa stagione, e restituisce un quadro d’insieme che impreziosisce il movimento che (per ora?) chiude la serie. Al centro del racconto si posizionano infatti, sin dai primi minuti, i rapporti, le relazioni. I network, insomma. Nel campo dei buoni, l’attenzione è tutta sulle dinamiche di coppia: Eleven e Mike, che sperimentano l’arco completo del rapporto adolescenziale, dalla quotidiana condivisione delle prime esperienze amorose fino all’addio finale e ingiusto, passando per la crisi dei litigi feroci e insanabili; Max ed Eleven, giovani adepte del rito (centro)commerciale dello shopping; Dustin  ed Erica, che si punzecchiano nei condotti dell’aerazione sulle tante declinazioni del ‘nerdismo’;  Robin e Steve, capaci di scivolare lentamente dalle schermaglie da gelatai a un outing costruito con tempi narrativi perfetti; Nancy e Charlie, uniti nel comune sfruttamento lavorativo ma persi nel conflitto interclassista che ne aveva segnato, dall’inizio, il rapporto; Joyce e Hopper, genitori single paranoici e incapaci di stabilire i confini esatti della loro relazione; e infine il capolavoro di Alexei e Murray, nemici prima e poi quasi teneramente complici nelle brevi sequenze on the road tra Illinois e Indiana. Tutti duetti che si muovono in un network sotterraneamente forte (accomunato dalle devastanti esperienze condivise nelle prime due stagioni perché “il trauma unisce”) ma che appare esteriormente sfilacciato, nelle cui dinamiche ha la meglio per le prime puntate l’attenzione esclusiva ed escludente che ciascuno ha per i propri problemi. Così, la logica di mutuo soccorso necessaria all’happy end interviene solo davanti all’evidente e straripante performatività del campo avversario. Perchè, esattamente all’opposto, i  network dei cattivi funzionano benissimo. I russi meravigliosamente disegnati secondo gli stereotipi amerikani degli anni di Rocky, Rambo e Ronald Reagan marciano compatti e cattivi verso una non meglio precisata missione comune, unanimemente avversi a quell’individualismo competitivo e capitalista che (Am)Erica disegna con grande efficacia piluccando un banana split.  Ma la vera rivelazione della terza stagione è il Mind Flayer che, esattamente all’opposto dei suoi giovani nemici devastati da dinamiche di coppia fallimentari, ha lucidamente realizzato che la relazione one to one intrattenuta con Mike nella seconda stagione non può funzionare perché la monogamia è sempre un rischio: perso Mike, perso tutto. E allora il villan della serie si orienta  verso il ben più redditizio modello della possessione seriale di massa. Attraverso la (vio)lenta  cooptazione di un variopinto esercito di individui tutti connessi tra di loro e con lui, il Mind Flayer costruisce un efficacissimo social network nel quale tutti soffrono le ferite di tutti e ciascuno è disposto a morire per sciogliersi (letteralmente) ai piedi del capo.

 

Il finale non può che essere lo scontro definitivo tra i due network, quello dei buoni (ovviamente) ricompattatosi e quello degli adepti del Mind Flayer, finalmente tutti ‘uni’ in uno. Quello che ne viene fuori è un intreccio di più voci, sviluppatosi nelle prime due stagioni e riannodato ora nella terza. Non c’è nessuna sorpresa nella trama. Si sa chi è il nemico e chi alla fine vincerà. Nessuna morte eccellente (forse…). Si arriva a un certo punto persino a intuire con qualche secondo di anticipo quando un tentacolo del Mind Flayer sfonderà la porta. Ma non conta, perché Stranger things non vuole fare altro che prendere lo spettatore e catapultarlo nelle relazioni di una comunità degli anni 80; renderlo parte di un gruppo, delle sue dinamiche, dei rapporti che lo animano. Ed è proprio la curiosità per il destino delle relazioni umane, vere stranger things che nessuno sembra mai dominare fino in fondo, che ipnotizza e produce dipendenza.

 

E così, nelle sequenze finali, mentre Peter Gabriel canta Heroes, si trattiene il fiato e qualche lacrima; proprio come se ci si trovasse davanti casa dei Byres a guardarli andar via con gli scatoloni, si resta attaccati agli ultimi fotogrammi per salutare (un’ultima volta?) protagonisti e comprimari, buoni, cattivi e tutto l’oliatissimo carillon che restituisce la sensazione di una scrittura ‘letteraria’ e intelligente nella quale ogni fotogramma e tutti i segmenti contribuiscono a dar vita a un intenso disegno corale: e pluribus unum.

 

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