C’è sempre una serie di incontri intellettuali eccentrici nella vita di chiunque decida di fare della ricerca la sua vita. Al di là infatti delle relazioni ‘verticali’, quelle cioè intrattenute con testi o personaggi che si occupano degli stessi topic e con i quali condividere riflessioni puntuali su singoli aspetti del comune oggetto di studi, esistono infatti – e per fortuna – divagazioni ‘trasversali’, incontri cioè con competenze e stimoli che provengono da altri ambiti e che, spesso anche solo casualmente, entrano come voci significative nel proprio modo di pensare lo studio e la realtà. È stato questo per me il caso di Branded Podcast Producer, il libro pubblicato da Rossella Pivanti per Franco Angeli nel 2021.
Rossella Pivanti è, come dice di lei stessa sul suo sito Web, “podcast producer a tempo pieno, formatrice per numerose Università e per Spotify, (…) tra i fondatori di Podcast Community Italia, la più numerosa community di podcasters e creatori audio del web”. Il libro di Rossella Pivanti offre, sin dalle prime pagine, fonti, riflessioni e strumenti concettuali per arrivare a definire quali siano le caratteristiche uniche del podcast, un ‘oggetto’ che ha prepotentemente occupato, negli ultimi anni, il nostro orizzonte comunicativo, con una crescita esponenziale delle curve di produzione e di fruizione.
Nell’immaginario contemporaneo, l’audio è da più di un secolo custode e veicolo di informazioni e formazione perché, ben prima della nascita di Internet, ha unito la facilità e la comodità della fruizione alla semplicità della produzione personale. Nella storia dei media moderni, gli strumenti consumer destinati alla riproduzione dell’audio si sono infatti sviluppati con larghissimo anticipo rispetto a quelli relativi al video. Basti pensare che i primi dischi fonografici commerciali cominciarono a diffondersi attorno ai primi anni del XX secolo mentre occorre aspettare almeno cinquant’anni per vedere l’esordio del sistema VCR, cioè l’inizio della diffusione dell’home recording in ambito video. Questa distanza è stata ovviamente acuita dalla nascita di strumenti di riproduzione e registrazione audio portatile (come le audiocassette negli anni sessanta e i CD alla fine degli anni settanta). È dunque ovvio come la storia delle forme di fruizione di contenuti on demand sia legata a filo doppio a strumenti audio. È per questo radicato, nell’immaginario di molti, il ricordo dei prodotti pensati per veicolare formazione e narrazione tramite il sonoro (come le favole su disco, le audiocassette con corsi di lingua o i vinili con discorsi di personaggi famosi) o delle registrazioni amatoriali usate nelle più diverse circostanze (come i corsi scolastici e universitari). Questa solida storia rende la fruizione audio una specie di luogo protetto, noto ed è forse nella sensazione accogliente che lo accompagna che si inserisce l’enorme successo riscosso, negli ultimi anni, dai podcast. La definizione dell’oggetto-podcast è complessa. Le caratteristiche note a tutti sono due: un podcast è un contenuto audio ed è distribuito via Internet (pp. 24-25). Ciò che lo distingue, e che non sempre viene colto come suo valore aggiunto, è che si tratta di un prodotto editoriale pensato ad hoc per quel canale. Dunque, realizzare un podcast non significa caricare online i file audio registrati durante una lezione ma immaginare un ‘oggetto da pubblicare’, che abbia dunque un contenuto da raccontare, una regia nella scelta dello stile audio, una attenzione alle modalità con le quali verrà fruito dal pubblico, etc.
Realizzare un podcast non significa caricare online i file audio registrati durante una lezione ma immaginare un ‘oggetto da pubblicare’, che abbia dunque un contenuto da raccontare, una regia nella scelta dello stile audio, una attenzione alle modalità con le quali verrà fruito dal pubblico
Il segmento di podcast dei quali si occupa il libro di Rossella Pivanti, i branded podcast, è tanto specifico quanto ricchissimo di spunti e suggestioni. Ed è il motivo per il quale questo libro è stato per me illuminante. I branded podcast sono prodotti editoriali audio immaginati e realizzati da grandi brand. È evidente come il podcast di un brand non possa essere pensato come una semplice illustrazione della cronistoria commerciale del marchio o, peggio, dei suoi prodotti perché si ridurrebbe a un contenuto meramente pubblicitario. Immaginare un podcast legato a un brand significa invece “dire qualcosa per dare qualcosa”, pensare cioè lo storytelling non come “un atto di vendita” e di esibizione di sé ma come “un atto di generosità”, come l’apertura di un “terreno di dialogo” (Pivanti 2021, p.68) e di condivisione. Come afferma con grande efficacia Rossella Pivanti, “il branded podcast crea infatti degli spazi di relazione con gli ascoltatori, che seleziona, avvicina e trattiene sulla base di determinati valori comuni” (p. 69). In un mercato in cui brand diversi realizzano lo stesso tipo di prodotto, il risultato che implicitamente un branded podcast vuole ottenere è dunque evidenziare al pubblico la sua specificità valoriale, l’essere cioè portatore di una narrazione di senso che rende unica e irripetibile la triangolazione marchio/prodotti/utenti.
Il branded podcast crea infatti degli spazi di relazione con gli ascoltatori, che seleziona, avvicina e trattiene sulla base di determinati valori comuni
La ricerca come un brand?
Dunque, in sintesi, un soggetto (il brand) che realizza, assieme a tanti altri soggetti simili (le altre aziende del medesimo settore), una tipologia di beni o servizi (i prodotti) per un pubblico (gli acquirenti o utenti) decide di posizionarsi rispetto agli altri soggetti usando un branded podcast, che non ha come finalità convincere semplicemente il pubblico ad acquistare di più i propri prodotti, ma che si propone come prodotto a sé stante che testimonia, propria nel non essere pubblicità, la convinzione con la quale il brand difende il suo orizzonte valoriale. Questa struttura (che nel libro di Rossella Pivanti emerge con chiarezza e viene accompagnato da una serie di indicazioni preziosissime sulle tecniche e le logiche di produzione dei podcast), tipica del mondo del marketing e del posizionamento commerciale, può però fornire un utile elemento di riflessione ‘trasversale’ per pensare a come realizzare podcast in un ambito completamente diverso, quello della ricerca scientifica.
La comunità scientifica si compone di una serie di studiosi che spesso affrontano il medesimo argomento, o argomenti tra di loro molto vicini, fornendo per ciascun topic analizzato un prisma di letture e interpretazioni, non sempre concordanti, che si differenziano tra di loro o perché, nel corso del tempo, si sono via via aggiunte evidenze documentali e testimonianze prima sconosciute o semplicemente per una capacità di nuovi interpreti di cogliere nessi che in passato erano rimasti in ombra. Esistono certamente, per ogni argomento, interpretazioni mainstream che tantissimi condividono e ripropongono ma a esse si affiancano sempre prospettive che nascono dalle diverse sensibilità di singoli studiosi o gruppi di ricerca. C’è dunque un soggetto (lo studioso) che realizza, assieme a tanti altri soggetti simili (gli altri studiosi che si occupano dello stesso ambito) una certa tipologia di beni o servizi (pubblicazioni e lezioni su un certo topic) per un pubblico (studenti, ricercatori o semplici interessati). Come dunque, nel mercato, rispetto a questa situazione di ‘concorrenza’ alcuni brand pensano di potersi posizionare efficacemente nei confronti del pubblico (e dei competitor) condividendo la narrazione del proprio orizzonte valoriale, inteso come ciò che, ‘ideologicamente’, muove l’azienda e dunque dà senso ai suoi prodotti, così è interessante provare a pensare alla realizzazione di podcast da parte di studiosi secondo i medesimi principi. Tutte le iniziative di Public Engagement e di Public Science, infatti, non hanno come finalità la semplice ‘pubblicizzazione’ di un prodotto o di un contenuto, come per esempio le proprie pubblicazioni scientifiche o i risultati della propria ricerca; l’elemento veramente ‘ingaggiante’, quello cioè con il quale lo specialista può coinvolgere il suo pubblico è l’insieme di valori che unisce i suoi prodotti, ciò in virtù di cui la ricerca, di cui quei prodotti sono i risultati, si è mossa. Così dunque come il podcast di un brand non si limita (o almeno non dovrebbe) limitarsi a raccontare la storia di quella azienda, i suoi processi produttivi o i suoi risultati, parimenti, il podcast di un ricercatore non può essere il racconto del proprio curriculum e di quali risultati ha raggiunto. In entrambi i casi, il risultato sarebbe tanto autoreferenziale quanto noioso, più spostato verso l’autopromozione pubblicitaria che verso lo storytelling. Come per quelli aziendali, anche il podcast per la ricerca deve dunque riuscire a trovare il modo in cui raccontare, rispettando i codici espressivi di quel formato editoriale, non solo i risultati degli studi ma il loro valore; cosa il ricercatore pensa che essi debbano produrre per la società e per la sua comunità, quale sia il movens ideale che lo spinge a crearli e a diffonderli.
Il podcast per la ricerca deve riuscire a trovare il modo in cui raccontare, rispettando i codici espressivi di quel formato editoriale, non solo i risultati degli studi ma il loro valore; cosa il ricercatore pensa che essi debbano produrre per la società e per la sua comunità, quale sia il movens ideale che lo spinge a crearli e a diffonderli.
Nel contesto ipernarrativo della contemporaneità, nel quale cioè ognuno è sempre, in ogni momento, ciò che dice all’esterno di essere, tutti i soggetti che vogliono interagire con il pubblico – siano essi grandi brand o piccoli gruppi di ricerca scientifica – sono costretti a riflettere sul fatto che narrare se stessi non significa semplicemente mettere in vetrina il cosa e il come di ciò che si produce ma, ben più profondamente, sforzarsi di raccontare in modo credibile ed efficace l’unico aspetto veramente caratterizzante della propria identità: il perché.