Nel mio immaginario di diciottenne di provincia appena diplomato, studiare a Napoli aveva il sapore di un altrove geograficamente prossimo ma spiritualmente distante anni luce. Napoli era un caleidoscopio di colori, sapori e profumi per certi versi ipnotico, nel quale ci si immergeva al mattino scesi dall’autobus e dal quale si fuoriusciva all’imbrunire viaggiando in direzione contraria, zuppi di cose viste e sentite. Una città dolcissima e cattiva, capace di farti sentire straniero e compaesano quasi nello stesso momento, piena di libri e librerie, manifesti politici, lotte e leccornie, squarci di bellezze sul mare e chiese nascoste nei vicoli.
Studiare a Napoli era sempre, giorno per giorno, studiare Napoli, cercare di capirla, di memorizzarne la mappa urbanistica e quella spirituale, sovrapporle per creare una propria cartina interiore dei luoghi e delle sensazioni. Nel cuore di Napoli aveva casa per me, in quegli anni, la Filosofia, nel maestoso doppio porticato della facoltà, laica nei pensieri, sacra nelle strutture, dedalo di corridoi e aule disposte quasi casualmente, piccole o enormi, tutte assolutamente permeabili ai rumori continui della città, in un dialogo continuo e quasi necessario tra la strada e la cattedra. In quell’intricato groviglio di scale, porte di legno, finestroni e varia umanità ci si sentiva piccoli dinanzi al carosello di docenti così diversi dai tipi umani che avevano abitato i nostri anni liceali.
C’è una parte di me che non ha mai lasciato quei porticati. Ogni volta che ci sono tornato, l’ho ritrovata lì, quella parte di me, seduta al sole a mangiare qualcosa, a leggere un libro o a fare due chiacchiere. Ogni volta che ci sono tornato, ho ritrovato il fascino di quelle aule e quei corridoi.
Ogni volta che ci sono tornato, ho cercato e trovato Valeria.
Ricordare Valeria a chi l’ha conosciuta è superfluo; chiunque abbia avuto la fortuna di incrociarla, come docente, collega o amica, sta pensando oggi, adesso al suo sorriso sornione, alla sua capacità di stare nelle cose ma di guardarle sempre da un metro di distanza, di essere pienamente protagonista del suo mondo professionale senza però abbandonare mai la giusta, indispensabile dose di ironico cinismo e divertito disincanto. Valeria è e sarà sempre custode dei miei anni universitari. Valeria era perfettamente collocata in quel quadro d’insieme napoletano che ogni mattina mi accoglieva; era alto e basso, nobile e semplice, profonda e sincera, votata a perseguire ciò che voleva ottenere senza perdere la capacità di leggere con spietata intelligenza la realtà e se stessa. Valeria sapeva non prendersi mai troppo sul serio. Quando eravamo suoi studenti, ci si mostrava professionista senza essere fanatica, seria senza essere seriosa, autoritaria e non intimidatrice. Valeria è stata sempre la voce gentile dall’altra parte del telefono, pronta a consolare, spronare, ridere e progettare.
Quando le mail erano meno di un’ipotesi futuribile, correggere una tesi era uno scambio materiale. Era consegnare fogli e, soprattutto, sottoporsi al confronto diretto di una correzione. Molto spesso, farlo significava per me affrontare emozionato le scalinate enormi di un palazzo ricco di storia e di storie. Perché da subito Valeria mi ha fatto entrare in casa sua. Ha lasciato che i suoi cani meravigliosi mi salissero fino in petto, mi ha permesso di osservare la collezione dei suoi pensieri meno istituzionali, più veraci e casalinghi. Mi ha mostrato l’amore speciale che la univa al suo compagno di vita.
Così, accompagnandomi in modo materno, Valeria è stata la porta verso quel Medioevo che è poi diventato la mia casa scientifica. Gilson, d’Onofrio, Gregory, Dal Pra, Cristiani, Lucentini e tanti altri cognomi e tanti altri titoli a me completamente sconosciuti uscivano fuori nelle nostre chiacchierate, quando ci incontravamo a prima mattina all’ingresso di quel porticato, con il portone ancora chiuso e alla ricerca di un un buon caffè. Da allora, da quando ero solo un laureando, né il suo tono di voce né le sue premure sono mai cambiate. Che mi chiamasse per parlarmi dei saggi che stava leggendo o per raccontarmi un aneddoto; che ci mettessimo d’accordo per condividere un tavolo e del buon vino a un convegno o che mi prendesse in disparte per regalarmi un romanzo che l’aveva appassionata, da quando è entrata nella mia vita Valeria non ha mai distratto lo sguardo e mi ha fatto sentire la sua presenza sincera, sempre.
Per questo, spiegare a chi non l’ha conosciuta chi fosse Valeria significherebbe riuscire a mostrare il senso squarciante di vuoto che la sua assenza mi ha lasciato. Non ho potuto dirle ciao. Né grazie. Mi resta solo il dovere dolce e amaro di fare testimonianza, nel mio lavoro e nella mia esistenza, della gentilezza e della dedizione che, per anni, mi ha regalato.
Armando, mi hai fatto appena conoscere Valeria. Te ne ringrazio
Armando, grazie. Valeria è nel mio cuore proprio col ritratto con cui la fai vivere in questo testo. Bello come il tuo cuore e come il suo.