C’è qualcosa di perverso e ipnotico nel breve arco di vita che ha visto il rapidissimo nascere e morire della cosiddetta Super League.
Domenica 18 aprile, dopo la mezzanotte, dodici tra i più blasonati club di calcio europei hanno annunciato senza alcun preavviso e con uno scarno comunicato stampa la nascita di una sorta di campionato continentale, alternativo alla Champions ma non ai tornei nazionali, al quale avrebbero avuto accesso solo i club fondatori più cinque ‘invitati’ in base a meriti sportivi; la League non avrebbe previsto retrocessioni ma solo una lotta per il primo posto, sul modello delle leghe americane come la NBA. Scopo del progetto era superare la formula dell’attuale Champions, che prevede un numero non elevatissimo di partite e molti incontri con squadre ‘minori’ (spesso le terze o quarte classificate dei campionati) di scarso interesse per il pubblico. Una operazione dichiaratamente finalizzata a massimizzare i profitti provenienti dai diritti TV (e dunque a far rientrare quei club dai debiti che quasi tutti hanno negli ultimi anni accumulato) senza doverli dividere con altre squadre e organismi intermedi e supportato con un finanziamento iniziale di 3.5 miliardi di euro dall’istituto JP Morgan.
La proposta ha sollevato, nell’arco di pochissime ore, una ridda di commenti negativi e aperte opposizioni. Le prime, e le più violente, sono arrivate da UEFA e FIFA, gli organismi che a livello europeo e mondiale gestiscono le diverse competizioni calcistiche. Invocando la morte del calcio come favola, la fine del romanticismo che permette anche a una squadra di provincia di arrivare alla ribalta internazionale, le due organizzazioni hanno minacciato di espellere le dodici squadre dai campionati nazionali e di estromettere i loro giocatori dalle competizioni ufficiali. Il governo tutt’altro che romantico con il quale negli ultimi decenni entrambi gli organismi hanno gestito il calcio suggerisce che la loro preoccupazione più rilevante non fosse legata alla fine di una narrativa eroica dello sport ma, ben più concretamente, alla perdita rilevantissima di introiti che la fuoriuscita di quelle big avrebbe provocato.
Ma le reazioni più inaspettate e, per certi versi, significative sono venute da altri due segmenti, più o meno direttamente coinvolti nella vicenda: gli attori sportivi e i tifosi. Allenatori (su tutti Klopp e Guardiola), calciatori e tifosi dei dodici club hanno apertamente manifestato la loro disapprovazione nei confronti del progetto, minandone così la fattibilità alla base. Si è così giunti, dopo sole 48 ore dall’annuncio di domenica sera, alla riunione dei dodici club di martedì sera, nella quale le sei squadre inglesi si sono defilate e, dopo di loro, l’Inter e, probabilmente, l’Atletico Madrid e il Barcellona. Così, più o meno verso le 23 di martedì, sul profilo Twitter dell’Arsenal, è apparsa la notizia della fuoriuscita del club dal progetto, accompagnata dalle scuse: ‘We made a mistake, and we apologise for it’.
Per certi versi, il fascino ipnotico di questa vicenda risiede proprio in questa frase. I club di calcio, e questi dodici in particolare, non sono polisportive di quartiere; sono aziende enormi, spesso quotate in borsa, con interessi globali in termini di merchandising e di diritti tv, di difesa ed affermazione del brand su tutti i mercati. A gestirli non c’è più (almeno in linea di massima) la figura del presidente-padre di famiglia degli anni ‘80 ma un management capace di tenere insieme il dato sportivo, quello finanziario e quello commerciale. Alla luce di questa premessa, risulta particolarmente difficile comprendere come aziende di questa portata possano aver costruito un progetto di tali proporzioni, evidentemente rivoluzionario e quindi inviso all’establishment politico, coinvolgendo un colosso come JP Morgan, senza prima aver nemmeno minimamente verificato quale appeal avesse il progetto medesimo sugli attori e sui fruitori ultimi. Se infatti, alle (prevedibilissime) proteste di UEFA e FIFA avessero risposto con entusiasmo tifosi, calciatori e allenatori, l’operazione sarebbe stata trionfale; i dodici club avrebbero affermato un nuovo modello di business e di organizzazione tutto votato allo spettacolo sportivo e alla sua miglior fruizione. Invece, bypassata – da quanto appare oggi – ogni minima indagine preliminare, ogni verifica della sostenibilità non finanziaria ma commerciale del prodotto, ignorata la costruzione di una fan base minima, tralasciata la funzione essenziale di eventuali ambassador che ci mettessero letteralmente la faccia, il progetto si è trovato senza player (allenatori e calciatori) e senza mercato (i tifosi), e si è rivelato come una semplice operazione verticistica decisa a tavolino dagli stakeholders.
Da parte di un management c’è certamente bisogno di coraggio per ammettere i propri errori, e ancor di più ne serve per chiedere scusa. Forse però, dinanzi al fallimento di un progetto di queste proporzioni, non basta scriverlo su un profilo Twitter per ritenersi sollevati dall’obbligo, almeno formale, di rassegnare le proprie dimissioni, gesto che nessun dirigente coinvolto nel progetto ha, ad oggi, compiuto o preannunciato, nemmeno davanti a perdite significative dei titoli in borsa. Forse però è sbagliato pretendere dai manager che non siano pienamente uomini di questo nostro tempo. Perché alla fine, la Super League è vissuta per 48 ore solo nelle news, nei comunicati. Soltanto, dunque, nelle parole. Qualcuno ha detto che c’era, domenica sera, e quello stesso qualcuno poi ha detto che non c’era più, martedì sera. E nell’epoca della dittatura del detto sul fatto, dell’annuncio sul progetto, del desiderato sul pianificato, chiedere ai club di calcio di non partecipare a questo sport ormai globale sarebbe, questi sì, un deplorevole e ingiustificato mistake.