Non sono particolarmente interessato ai negazionisti stile “no-vax terrapiattisti” né mi scandalizza che, dinanzi a una comunità scientifica che al 99% li sbugiarda, difendano ancora le loro posizioni. Se penso che quando Rosa Louise Park ha dovuto combattere per non cedere a un bianco il suo posto sull’autobus era il 1965, cioè l’altro ieri, mi rendo conto che se cinquant’anni fa in America le leggi autorizzavano a pensare che esseri umani di un colore diverso erano geneticamente inferiori, non si vede perché qualcuno non possa oggi credere che i vaccini provochino l’autismo.
Che fine fanno i negazionisti
I negazionisti, dicevo, sono poco interessanti, soprattutto perché, nel medio-lungo periodo, tendono ad eliminarsi da soli, senza che serva veramente far fatica nel confutarli. Alla fine, quando salgono su una barca per dimostrare che la terra è piatta, il gesto pietoso della guardia costiera che li ripesca a largo di Ustica è la miglior rappresentazione del fatto che il principio di realtà ha sempre la meglio. Perché negare che qualcosa “è come è” ha a che fare con “come sono le cose”; e le cose, a un certo punto, pretendono di tornare a essere quelle che sono e in quel momento chi lo nega finisce, metaforicamente e non, a mare.
Un onesto complottismo
Quello che invece mi affascina in modo profondo è il complottismo; quello genuino, però, quel sentiment cioè che alberga ingenuamente nel fondo dell’animo di (quasi) tutti e che è ben diverso dalla millanteria fraudolenta che crea ad arte prove a supporto delle proprie panzane per un mero tornaconto personale. Il complottismo ‘onesto’, dunque, quella seducente perversione che accomuna gruppi, associazioni, movimenti, sette o semplici crocchi di avventori del bar, tutti impegnati ad addossare a non si sa quale complotto (appunto) segreto tutti i mali pubblici e privati del tempo che vivono. Una attitudine, quella complottista, affascinante perché sempre, necessariamente legata a una dose massiccia di produzione immaginifica. A differenza infatti dei negazionisti che, come dice il nome, si limitano a negare la validità di qualcosa che c’è (come il fatto che i vaccini funzionano e che la terra è sferica) i complottisti creano un nuovo oggetto che, per questo, può essere immaginato nelle forme più diverse, strane e perverse, dando libero sfogo a mille acrobazie creative.
Il meccanismo teorico che fonda il complottismo è articolato attorno a due elementi imprescindibili. In primis, il complottista non si fida delle motivazioni che vengono fornite dalle autorità rispetto a un dato fenomeno e per questo va alla ricerca di altre prove che, ovviamente, non riesce a trovare ma alla cui sotterranea esistenza ammicca collegando in modo casuale avvenimenti, documenti e dati. Che tali prove non siano evidenti è la più evidente prova che un complottista può fornire a chi gli chiede conto delle sue teorie: se infatti non si trovano prove – questo è il secondo elemento essenziale di tutti i complottismi – è perché Loro le hanno cancellate. Loro. La sequenza logica è semplice: proprio perché Loro hanno qualcosa da nascondere, tutte le prove sono state distrutte; il complottista li ha scoperti (non si sa come e non si sa perché proprio lui, cioè in base a quale suo specifico e assolutamente unico talento) e a fatica ha raccolto qui e lì brandelli di tracce che, pur nella sigillata perfezione di quel piano segreto, Loro hanno comunque lasciato qui e là.
Loro chi?
Nell’immaginario comune, Loro sono una subdola Spectre fatta di volta in volta di banchieri, magistrati, arbitri, manager, politici, inquilini del secondo piano, ebrei, massoni, studenti della III A, fumatori, stilisti e macellai che si sono segretamente associati per dare poi seguito ai loro piani. Il complottista non lo dice apertamente ma, in cuor suo, sa senza timore di sbagliare che a un certo orario di un certo giorno Loro si sono incontrati, probabilmente mascherati e con le voci camuffate, per decidere attorno a un tavolo con quale virus sterminare l’umanità o quante e quali banche far fallire oppure chi dovrà vincere i prossimi sei scudetti o quanta cresta va fatta sul preventivo dei lavori condominiali o ancora quali pantaloni andranno di moda l’anno prossimo e così via, per poi tornare ciascuno alla vita di sempreegodersi gli effetti nefasti dei complotti appena imbastiti.
Il dolore, l’ingiustizia e le sconfitte entrano nella nostra vita senza preavviso, quasi come effetto di una non si quale tragico(s)mica persecuzione. Alcuni hanno bisogno, per metabolizzare questa condizione tutta umana e per anestetizzare almeno un po’ l’imponderabile imprevedibilità con la quale essa attraversa le nostre esistenze, di trovare dei colpevoli che abbiano nomi e cognomi, dei quali si possa affermare che agiscano in modo premeditato e per un fine ben preciso. Pensare a un complotto significa coltivare la speranza che, quando si viene improvvisamente colpiti da una piccola o grande sventura, non si è irrimediabilmente alla mercé dei capricci della storia, del caso o della natura ma vittime di un piano ben ordito che, almeno in via teorica, proprio perché umano può essere prima smascherato e poi fermato. Per questo, tanto nelle sue forme più folcloristiche e pubbliche quanto in quelle più locali e quotidiane (alle quali tutti abbiamo partecipato almeno una volta nella vita in fila alle casse di un supermercato), il complottismo altro non è se non una arma di consolazione di massa. Accusare di una qualsivoglia sciagura Bill Gates, Obama, il Papa o i propri vicini, ovverosia i tanti Loro che riempiono le piccole o grandi comunità in cui viviamo, non significa veramente volerli trascinare in tribunale per crimini contro l’umanità o contro il condominio. Incolparli serve soltanto ad avere un nome da masticare con odio mentre ci si lamenta – in piazza, su Facebook, con pochi sodali o anche solo tra sé e sé – della propria condizione, pensando che un danno subito per colpa di qualcuno (di Loro) sia meno metafisicamente insopportabile da accettare del fatto che a volte il caso avverso arriva senza dare preavviso né spiegazioni. Per questo, prendersela con Loro, cioè attribuire alla presunta umana cattiveria la responsabilità dei propri dolori è, semplicemente, un diversivo esistenziale; è produrre la caciara intracranica o politico-mediatica necessaria a distogliere lo sguardo dalla condizione del proprio essere al mondo, che a volte risulta insopportabile nella sua banale e irrimediabile fragilità.