In questi giorni insopportabilmente afosi di fine agosto non c’è telegiornale, testata giornalistica o sito di informazione che non abbia dedicato spazio considerevole al problema della riapertura delle scuole. Indubbiamente il tema è di per sé rilevante, anche solo per i numeri che muove (nel 2019 gli studenti italiani di elementari, medie e superiori erano più di otto milioni) e poi perché, come dicono quelli che parlano bene, il grado di civiltà di un paese si misura dall’attenzione che riserva alla formazione. Dunque, se il 19 settembre riparte il calcio, va da sè che di lì a poco deve ripartire anche la scuola. La lunga serie di deroghe che, con uno sforzo congiunto, Governo, Regioni e Comitato tecnico-scientifico hanno approvato rispetto ai protocolli di sicurezza permette con facilità di cogliere quanto questo risultato stia a cuore a tutti. La capienza massima degli autobus è lentamente lievitata fino all’80% (arrivando al 100% per tragitti inferiori ai 15 minuti), con evidente impossibilità di ogni distanziamento minimo; l’obbligo delle mascherine in classe è stato via via reso meno stringente e con la stessa solerzia è stato delegato ai genitori il compito di misurare la temperatura agli studenti prima di uscire di casa.
Babyparking
La grande attenzione dei media, il dibattito pubblico monopolizzato dal tema, la serie di concessioni e deroghe ai protocolli faticosamente approvate sembrano essere la testimonianza di quanto il problema-scuola sia centrale nell’agenda politica e culturale italiana ma fanno anche sorgere, sottotraccia, un sospetto. Per focalizzarlo, è sufficiente fare un veloce paragone. Giovedì 3 settembre negli Atenei italiani si terranno in presenza i test per l’accesso ai corsi di laurea in medicina. Il numero di partecipanti, poco più di sessantamila in tutta Italia, non è minimamente paragonabile alle cifre di studenti che si muoveranno per tornare a scuola dal 14 settembre; l’evento è però comunque significativo perché sta richiedendo, agli Atenei e alle amministrazioni locali e regionali, un importante sforzo organizzativo per garantire a tutti condizioni di sicurezza e serenità.
Di tutto questo, però, nei media non si trova traccia, come del resto ben poco si parla del fatto che, una settimana dopo l’inizio della scuola, molti Atenei riprenderanno, almeno in parte, la didattica in presenza e le altre attività a essa correlate. Il diverso trattamento tra i due segmenti della formazione suggerisce una riflessione sul ruolo che, nell’immaginario culturale italiano, ha l’istruzione scolastica.
Non è infatti difficile ipotizzare che l’attenzione che il mondo politico, di qualsiasi colore e casacca, oggi sta dedicando alla “emergenza scolastica” non sia motivata tanto dalla presa di consapevolezza della centralità dei processi formativi per la vita culturale, educativa e soprattutto spirituale degli studenti ma, ben meno nobilmente, dalla necessità di riattivare quanto prima il babyparking gratuito e indispensabile che la scuola garantisce per cinque ore al giorno, dal lunedì al venerdì. Viene cioè da pensare che tenere chiusa la scuola sia un problema non tanto perché così facendo si interromperebbe la continuità della formazione o perché i ragazzi perderebbero preziose occasioni di crescita e socialità ma soprattutto perché farlo impatterebbe in modo irrimediabile sul meccanismo produttivo del paese, inceppando ritmi e orari dei genitori. Non è infatti un caso che della possibile riapertura delle Università si parli poco, perché in quel caso gli studenti che eventualmente verrebbero colpiti da una mancata ripresa delle attività sono maggiorenni e autonomi. Allo stesso modo non è un caso che dell’emergenza scuola si sia parlato pochissimo durante il lockdown perché, banalmente, con tutto il paese fermo e i genitori a casa, l’esigenza del babysitting veniva meno e quella formativa appariva per come essa è nell’immaginario culturale di buona parte del paese: secondaria e trascurabile, delegata alla buona volontà di presidi e docenti, senza direttive unitarie sul se e sul come fare didattica a distanza, senza una scelta uniforme nell’uso delle piattaforme, senza un coordinamento nazionale.
Aprire oggi la scuola, specificando che gli studenti eventualmente positivi e i loro compagni dovranno poi restare a casa in presenza di sintomi significa, banalmente, scaricare sulle famiglie il compito di gestire le emergenze, senza poter ricorrere al supporto (tante volte salvifico) dei nonni, che andranno preservati proprio dai nipoti che sono a casa perché potenzialmente contagiati e dunque contagiosi, ma dovendo affidarsi, a spese proprie, a figure esterne o a giorni di ferie e malattie. Come è possibile, dunque, parlare della necessità della riapertura senza discutere, contemporaneamente, di strumenti normativi che supportino i genitori, nel caso di chiusure delle classi, garantendo loro la possibilità di assentarsi dal lavoro senza doverne pagare singolarmente le conseguenze?
L’occasione persa
Questa noncuranza dell’impatto sociale di una riapertura delle scuole che non si accompagni alla definizione di dispositivi normativi di supporto per le famiglie non è il solo risultato sconfortante della riflessione politica di questi mesi relativa al segmento della formazione. Durante le settimane della reclusione forzata, da più parti veniva l’auspicio che la quarantena nazionale ci avrebbe reso migliori. In alcuni casi è stato effettivamente così. Tornando all’esempio universitario, la scelta di quasi tutti gli Atenei di adottare la medesima piattaforma software ha permesso ai gruppi di supporto delle singole università di concentrare le proprie risorse nella formazione di tutto il personale, che è stato messo nelle condizioni, nell’arco di meno di due settimane, non solo di trasportare online quasi tutte le sue attività (didattica, esami, lauree, commissioni, riunioni consiliari, etc.) ma soprattutto di farlo su una piattaforma che, essendo comune anche agli altri Atenei, rendeva paradossalmente più facile che in passato lo scambio di informazioni e la condivisione di attività didattiche e di contenuti tra docenti di sedi diverse. L’università italiana esce da questo lockdown con un know how tecnologico che oggi la rende capace di ‘reggere’ anche il rischio di nuove chiusure e che domani sarà parte integrante del suo bagaglio e della sua capacità di fare network.
Da nessuna parte si è invece levata una voce ‘politica’ che invitasse a sfruttare i mesi della chiusura e quelli seguenti per fare il punto della situazione. Le difficoltà di docenti e studenti nel gestire la didattica online avrebbero dovuto suggerire almeno due indagini: una prima rivolta a monitorare quante e quali piattaforme di condivisione di contenuti vengono usate nelle scuole, cercando di avviare un processo di unificazione, non a fini monopolistici ma per una standardizzazione dei processi finalizzata a una migliore relazione tra docenti anche di scuole diverse; una seconda, volta a comprendere quanto profondo fosse il digital divide che caratterizza larga parte della platea di docenti e studenti: in quante famiglie c’è almeno un device utilizzabile per la didattica a distanza? In quante zone d’Italia non arriva una connessione dati sufficiente? Quanti docenti sono in grado di gestire in autonomia e con efficacia una piattaforma digitale, il che non significa solo saper premere ‘ok’ sull’icona della videocamera ma ripensare la propria didattica per renderla fruibile su quel medium?
Riflessioni puntuali su questi temi avrebbero condotto per un verso a farsi trovare pronti nel caso di nuove, immediate o future emergenze e, per un altro, a fornire al mondo della scuola un know how, strumentazioni e infrastrutture utili a potenziarla anche quando tutto tornerà alla normalità. E’ infatti facile immaginare quanto questi investimenti avrebbero potuto integrarsi con il mondo della didattica oggi e per il futuro. Dotare per esempio i computer – che già oggi sono presenti in ogni classe e collegati alle LIM – di webcam e soprattutto di un software per la didattica in streaming che consentisse anche di salvare in cloud le lezioni permetterebbe oggi agli studenti eventualmente a rischio di non interrompere le attività didattiche e, in futuro, offrirebbe la stessa possibilità ai ragazzi che si assentano per malattia o, peggio, ai lungodegenti che per molti giorni non possono andare in classe, consentendo al contempo a tutti, grazie alle registrazioni, di riascoltare parti della lezione a casa fuori dagli orari scolastici. Usare questi mesi per un training con software di questo tipo avrebbe messo docenti e studenti oggi nelle condizioni di passare con facilità, nel malaugurato caso di chiusure generali, a una didattica completamente a distanza, in un ambiente già noto.
Cosa mettere al centro
L’attenzione che solo oggi, dopo mesi di silenzio, viene dedicata ai problemi connessi con la ripresa della didattica in presenza mostra il profondo ritardo culturale con il quale la politica tutta, a prescindere dalle diverse coloriture ideologiche, legge da sempre il mondo della formazione. Lasciata per mesi alla iniziativa volontaria, individuale e autogestita delle singole istituzioni formative territoriali, la scuola diventa invece oggi e d’improvviso l’urgenza dell’agenda politica nazionale forse soltanto perché il sistema produttivo non sarebbe in grado di reggere una nuova sospensione delle attività didattiche. La sensazione, invero spiacevole, è che riaprire sia una necessità primariamente ed essenzialmente legata a fattori economici e produttivi, non un’esigenza culturale o didattica, e che al complesso universo scolastico (che nei mesi più bui ha saputo, tra mille difficoltà, tener vivi i fili delle relazioni con e tra i ragazzi) venga chiesto di riprendere le attività a tutti i costi non per la loro valenza sociale e culturale o perché sia stata puntualmente verificata la possibilità di una ripresa in sicurezza ma per la nostra incapacità, come sistema-paese, di immaginare un diverso modello di welfare pronto a reggere un ulteriore ritardo nella riapertura dell’anno scolastico.