Le immagini di papa Francesco che affronta il deserto di piazza S. Pietro, sullo sfondo delle ambulanze che, sole, rompono il silenzio del pomeriggio romano sono sembrate a molti la più efficace rappresentazione di questi giorni angosciati da distanze sociali e solitudini forzate. Ma su quelle scale, sotto quella pioggia, in quel vuoto tanto stridente con le consuete immagini di assembramento di quei luoghi il papa è riuscito involontariamente a mostrare al mondo, ancor più che la presente, amara contingenza sociale, la permanente, terribile condizione che abita, sempre, il sentire religioso. Perché se è un esercizio di fede di particolare difficoltà tentare di accogliere e interpretare comunitariamente la parola di Dio, ben più complesso, drammatico e urgente appare, al singolo individuo, comprendere di Dio i silenzi e abitarne le assenze.
L’esperienza religiosa è sempre, inevitabilmente doppia. È, per un verso, sociale, pubblica, rituale; fonda chiese, anima comunità, si alimenta nel rispecchiarsi reciproco dei fedeli, in un esercizio di condivisione che sembra già di per sé, a chi lo vive, garanzia di efficacia del credo. Al contrario e al contempo, interiorità e silenzio sono, da sempre, il luogo e la condizione dell’incontro con Dio. Lasciar fuori il mondo, dimenticare i negotia esteriori, fare spazio vuoto, zittire i rumori; creare dentro di sé un luogo di assenze e sottrazioni dove ospitare l’incontro con il divino senza il rischio di sporcarlo con le inutili urgenze che invece solitamente affollano la quotidianità. Ma mentre la struttura sociale del religioso si autoalimenta in modo circolare, perché l’esercizio pubblico del credere è un collante comunitario a volte ancor più potente del credere stesso, la spoglia e muta caverna interiore nella quale Dio dovrebbe parlare all’uomo singolo mostra plasticamente quanto la fede sia mescolanza inscindibile di speranza e paura. Perché l’assenza di ogni brusio o distrazione in interiore homine è funzionale, più che a dare spazio alla parola divina, a togliere ossigeno a quella umana. A strappar via tutti i possibili nascondigli del quotidiano per permettere all’uomo di guardare in faccia, senza difese né mediazioni, la paura cruda che, al di là del qui e ora, non vi sia né un al di là né un dopo. Nel silenzio parlano e si accavallano il desiderio connaturato all’uomo che ci sia un altrove nel quale tutto si ricomponga in un senso ultimo e complessivo e la paura che questo posto ‘altro’ sia solo una proiezione, una chimera figlia proprio della potenza di quel desiderio. In ciò, le parole della religione, di ogni religione, non hanno bisogno, per esser vere, di dire cose vere, perché la religione non descrive, né spiega; non ha la pretesa di dire come è fatto Dio ‘veramente’, come agisce, cosa pensa, perché permette che alcune cose accadano o come vuole essere venerato. La religione parla alla nostalgia del divino che alberga in ogni animo, instrada l’uomo verso la trascendenza, indica strategie utili per aiutarlo a ri-legarsi alla patria che egli sente perduta e al di là. Soccorre il bisogno di ulteriorità che invade sempre l’uomo.
Per questo, quello che Francesco ha affrontato qualche giorno fa sotto la pioggia di Roma non è stato (soltanto) il deserto ‘locale’ di una piazza ma l’assordante assenza di un Dio che non parla sempre e non parla a tutti; il vuoto che rende la fede proprio il tremore di chi sa, in cuor suo, che il silenzio di Dio potrebbe essere il segno inequivocabile della sua inesistenza. Perché davanti alle tragedie, mondiali e personali, di Dio si fa fatica a intravedere l’azione, la volontà, il provvidente progetto, il piano ordinato e razionale. La parola e la presenza. E in questo, proprio in questo si resta soli, emozionati, spaventati, speranzosi; credenti senza certezze e, dunque, pienamente uomini. Come Francesco e come tutti quelli che, qualche sera fa, hanno visto rispecchiata in quel deserto non solo la condizione presente di una coatta reclusione ma la paura straordinariamente umana e senza tempo che tutto sia silenzio.