Faccia da bravo ragazzo, gusto raffinato per un pop elegante, John Mayer esordisce nel 1999 con un EP interamente acustico, molto ben suonato e con un paio di momenti di scrittura, musicale e lirica, di grande interesse.
A good old boy
Già dal titolo, Inside Wants out, Mayer sembra voler far capire che dietro il suo viso pulito c’è qualcosa che vuol venire fuori: per questo, in No such thing John se la prende con quanti vogliono imporgli di stare in riga mentre lui sente dentro la voglia di uscire dagli schemi e evadere da mura troppo strette. Subito dopo, però, John si ricorda della sua inequivocabile espressione da good old boy e, in My stupid mouth, fa teneramente atto di penitenza per una parola di troppo spesa a cena, che gli ha fatto infrangere il più internazionale dei precetti materni: pensa prima di parlare. Una chitarra acustica semplicissima accompagna i due pezzi, che restituiscono un cantato dolce e caldo, che gode di turnaround efficaci, passaggi quasi manouche e un uso intelligente del falsetto.
In una versione meno acustica (e meno riuscita) ritroviamo entrambi i pezzi, due anni dopo, nel primo, vero album di Mayer, Room for squares, che scorre via senza grandi picchi, con l’eccezione forse della romantica traccia di chiusura, St. Patrick day, con il suo invito climatico-amoroso: sta arrivando l’inverno e ognuno ha bisogno di un amore tutto suo.
A dispetto del titolo, Heavier things, anche il secondo album sembra un po’ ‘leggero’; resta nelle orecchie forse solo Daughters (già pubblicata come demo) che, ancora una volta, racconta il mondo easy di Mayer in cui tutto è placidamente al suo posto: padri che amano le figlie che diventano mamme di figli che diventeranno padri di figlie che ameranno figli e così via.
Sympathy for the devil
La carriera del bravo ragazzo del Connecticut sembra ordinariamente destinata a continuare lungo le linee di un pop morbido, ben pensato ma poco incisivo.
Nel 2004 Mayer decide di girare gli USA con un tour promozionale, poi confluito nel doppio album As/Is. Al centro del concerto, preso da uno estemporaneo e inedito demone, Mayer offre al pubblico cinque minuti di improvvisazione blues: la band lo segue in un semplicissimo ma efficace shuffle senza nessun cantato, ma con un unico, lungo e articolato solo di chitarra. Il pezzo, che nelle registrazioni verrà chiamato genericamente Blues intro perché altro non è se non una jam live, sembra poter essere un turning point della biografia artistica di Mayer. L’anno dopo, John Scofield, uno dei più intelligenti e visionari chitarristi fusion post-bop degli ultimi trent’anni, lo chiama a cantare in una delle tracce di That’s what I say, un tribute album interamente dedicato ai pezzi di Ray Charles. Scofield inventa un tema, assente nell’originale I don’t need no doctor, e lo trasforma in un riff ipnotico, con un potente groove che lascia a Mayer la possibilità di aprire la voce a un orizzonte nuovo. Il cantato è perfetto e il tono leggermente nasale e molto elegante ricorda tantissimo la voce del compianto Steve Ray Vaughan.
Il pezzo è fenomenale e entra di diritto in tutti i live di Mayer, assieme ad altri classici del blues. Abbandonati i panni del good old boy tutto chitarra acustica e buoni sentimenti, Mayer sembra poter cambiare stile nel cantato, nel sound della chitarra e nella scrittura musicale. Così, sempre nel 2005, Mayer incide Try!, un album live con Pietro Palladino al basso e Steve Jordan (ex Blues Brothers) alla batteria, gli stessi musicisti che, dopo averlo accompagnato nella registrazione di una Route 66 formato rock’n’roll’ che entrerà nella colonna sonora del film Disney Cars, saranno al suo fianco nella incisione di quello che oggi è ancora probabilmente il suo album migliore, Continuum: le sperimentazioni soft pop dei primi anni si arricchiscono di pedali, ostinati, soli e atmosfere black per un prodotto complessivamente eccellente. Mayer affronta la scrittura e l’interpretazione con un nuovo mix di leggerezza e forza, che gli permette di confrontarsi anche con un pezzo complesso come Bold as love di Jimi Hendrix, mostrando un chitarrismo raffinatissimo. Così, nelle tracce di Continuum, Mayer riesce a preservare i suoi temi elettivi, su tutti quelli relativi alle pene d’amore, riempiendoli di una sonorità molto più rotonda. Gravity è una specie di antipasto slow con un ostinato ipnotico nel finale, mentre Dreaming with a broken heart, dopo una efficace introduzione soft, pianoforte e voce, sale, si sporca nel suono, graffia il cantato e segue con efficacia il testo che racconta la sofferenza di un cuore spezzato. Ma il pezzo più riuscito dell’album, e forse non a caso il più semplice, è l’ultimo, I’m gonna find another you: un arpeggio sostiene la voce che comincia a raccontare della fine di un amore, in uno slow blues elegante che i fiati trasformano lentamente in un rhythm’n’blues alla Ray Charles.
Crossroads
La magia di questo elegante black side che (finalmente) sembra aver preso possesso di Mayer dura però ben poco. Quasi pentito di aver concesso al suo demone – come nella miglior tradizione dei crocicchi mississippiani – cinque minuti di fila di blues dal vivo e un album dai toni più densi, Mayer fa tre passi indietro e in tutti gli album successivi a Continuum l’eco blues viene sopita e anestetizzata.
Battle studies, uscito nel 2009, è un prodotto strano, che alterna sonorità da boy band (come il ritornello di All we ever do is say Goodbye) a pezzi simil-country (Who says), ritornando a una ispirazione molto più marcatamente pop e concedendo al demone black lo spazio di una singola ma davvero esplicita confessione: Mayer sceglie di suonare il pezzo simbolo con il quale Robert Johnson aveva parlato del suo patto con il diavolo; ne esce fuori una efficace Crossroads, suonata in pieno stile british blues e con una chitarra particolarmente sporca nel solo. Il lavoro successivo, Born and raised, del 2012, riporta pienamente Mayer alle sonorità dei primi album: molta chitarra acustica, con qualche ascendenza di folk europeo (The age of worry) ed americano (Speak for me e Whiskey, whiskey, whiskey) e – come in Battle studies – un’unica incursione in territori più black: Something like Olivia è un blues leggero, piacevole ma senza troppe pretese, nel quale anche il solo di chitarra si rivela, alla fine, abbastanza ordinario.
Dopo solo un anno, Mayer pubblica il suo quinto album in studio, Paradise valley. Dopo aver suonato e cantanto negli album di Kanye West, Alicia Keys o Ed Sheeran, Mayer per la prima volta Mayer ospita dei featuring, come quelli di Katy Perry e Frank Ocean. L’anima marcatamente pop dei brani lascia lo spazio solo di un piccolo ‘cameo’ blues. In linea con l’atmosfera southern di altri brani dell’album (You’re no on ’til someone lets you down e On the way home), Mayer piazza al centro dell’album una cover ‘pesante’, Call me the breeze, scegliendo una via di mezzo tra le due versioni che hanno reso celebre il pezzo, suonato alla velocità con cui lo eseguiva J. J. Cale ma con un cantato che sembra inseguire maggiormente il tono ironico dei Lynyrd Skynyrd.
L’ultimo lavoro, uscito nel 2017, The search of everything, conferma senza possibilità di ulteriori dubbi la scelta di Mayer di accreditarsi come autore pop. Per sentire ancora una eco di quel demone, vale la pena di inseguire i featuring dove Mayer si concede a pezzi più black; nel 2014, Mayer prima duetta con (la forse troppo crooner) Barbara Streisand in Come rain or come shine di (ancora!) Ray Charles e poi è al fianco di Eric Clapton nel disco-tributo a J. J. Cale The breeze per dar vita a una versione molto misurata di Don’t wait.
Bonus tracks
Per capire cosa sia, per John, la ‘possessione diabolica’ che ogni tanto lo trasforma in un bluesman di razza è sufficiente andare su YouTube e cercare ‘John Mayer blues’. Per i più pigri, tre consigli, tutti live:
1. Voodoo Child
2. La Grange (con gli ZZ Top e Slash)